da Dr. Mario Valente
Ci sono persone che scompaiono, ed è un sollievo. Le lasci andare, loro lasciano andare te, e il tempo si occupa del resto. Poi ci sono loro: gli ex che non tornano, ma nemmeno spariscono del tutto. Non chiamano, non scrivono, non si dichiarano, ma orbitano intorno a te come satelliti fantasma, mantenendo una presenza sottile, appena percepibile, ma dannatamente efficace. Ti osservano da lontano, lasciano like come briciole di pane, visualizzano ogni tuo post, talvolta lanciano una reazione a una storia – un piccolo cenno, un’ombra che si insinua sotto la porta del presente.
Questo fenomeno, noto come orbiting, rappresenta una dinamica relazionale complessa e spesso dolorosa nell’era digitale. Dal punto di vista della psicologia, l’orbiting è più di una semplice curiosità residua: è una forma sottile, talvolta inconscia, di mantenimento del legame che può avere implicazioni significative per il benessere emotivo e l’autostima di chi lo subisce.
Cosa Significa Orbiting: I Fantasmi Digitali Post-Rottura
L’orbiting è un fenomeno figlio dell’era digitale, ma il suo meccanismo psicologico affonda le radici nel bisogno umano di connessione e, talvolta, di controllo. È il desiderio di mantenere un collegamento senza l’impegno che una relazione richiede, di rimanere presenti nei pensieri dell’altro senza pagarne il prezzo emotivo. Si nutre dell’ambiguità, della curiosità, del sottile veleno del “forse”. È l’illusione che qualcosa sia ancora in sospeso, che una porta sia rimasta socchiusa, che ci sia ancora spazio per un ritorno, alimentando spesso false speranze in chi ne è oggetto.
Ma torniamo alla scena. Sei andato avanti, o almeno ci stai provando seriamente. Poi, all’improvviso, il tuo telefono vibra: il tuo ex ha messo un like a una foto di tre settimane fa. Solo un like. Un gesto apparentemente insignificante. Ma qualcosa dentro di te si accende, una domanda si insinua nella mente: Perché?. Perché proprio adesso? Cosa vuole dirmi? Vuole dirmi qualcosa? E prima che tu possa rendertene conto, sei di nuovo dentro, risucchiato nella spirale di pensieri e supposizioni, nell’illusione di un significato nascosto che forse non esiste.
Ed è qui che l’orbiting colpisce più duro. Non è un’azione esplicita, è un’assenza attiva. Non ti viene offerto nulla di concreto, ma quel poco che basta per tenerti agganciato. Il digitale diventa così un campo minato emotivo, dove ogni piccola traccia della loro presenza – questi veri e propri fantasmi digitali – riapre ferite che pensavi cicatrizzate, interferendo con il naturale processo di elaborazione delle emozioni legate alla fine di una relazione.
Perché lo Fanno? Le Radici Psicologiche dell’Orbiting
La domanda più ovvia è: perché qualcuno dovrebbe comportarsi così? Perché un ex dovrebbe scegliere di restare nella tua orbita senza mai tentare un vero riavvicinamento o una chiusura definitiva?
Potere, Controllo e Narcisismo Digitale
Una delle risposte più semplici, e talvolta inquietanti, riguarda il potere. L’orbiting può essere un modo per mantenere una forma di controllo su qualcuno che, in teoria, si è lasciato andare. Diventa un atto quasi narcisistico, mascherato da semplice distrazione o curiosità, una tecnica per non sentirsi dimenticati, per alimentare la sensazione di avere ancora un peso e un’influenza nella vita dell’altro. È una forma sottile di manipolazione emotiva nelle relazioni, anche quando non è pienamente consapevole.
Incapacità di Chiudere e Paura del Distacco
Tuttavia, non è sempre e solo questione di manipolazione cosciente. Spesso chi orbita intorno a un ex lo fa perché non è in grado di chiudere davvero. Forse c’è ancora un sentimento, ma non abbastanza forte o chiaro da giustificare un ritorno. Forse c’è un senso di colpa irrisolto, un bisogno di monitorare che l’altro non stia “troppo bene” senza di loro, un desiderio di sentirsi ancora importanti o rimpianti. O, più semplicemente, può celare una paura profonda del distacco definitivo, dell’ignoto che segue una chiusura netta.
Il punto cruciale è che chi pratica l’orbiting raramente si rende conto della crudeltà implicita nel suo comportamento. Perché a chi orbita, questo gioco costa poco o nulla. È una dinamica che si gioca quasi sempre a senso unico: loro galleggiano sulla superficie della tua vita digitale senza mai immergersi o impegnarsi, mentre tu puoi venire risucchiato emotivamente da ogni loro piccolo, ambiguo movimento.
L’Illusione della Speranza: La Trappola Emotiva dell’Orbiting
L’orbiting è così efficace perché si insinua nelle crepe della mente lasciate aperte dalla fine della relazione. Sfrutta la vulnerabilità, il bisogno umano di risposte che forse non sono mai arrivate, la difficoltà a lasciare andare. Ti costringe in una zona grigia, un limbo emotivo dove nulla è veramente chiuso ma nulla è realmente aperto. Ed è proprio in questa sospensione che si annida la trappola psicologica più grande: la speranza.
Perché se il tuo ex è ancora lì, se continua a orbitarti intorno con like e visualizzazioni, il pensiero automatico può essere: “Forse c’è ancora qualcosa”. Forse è solo una questione di tempo, forse tornerà, forse è confuso/a, forse sta solo aspettando il momento giusto o un segnale da parte mia.
Ma la realtà, spesso, è più brutale e meno romantica. Se qualcuno ti vuole veramente nella sua vita, di solito trova il modo di esserci in modo concreto e chiaro. Non lascia indizi criptici come un ladro indeciso se rubare o no. Non si accontenta di guardarti da lontano mentre provi faticosamente a ricostruire te stesso/a. Il gioco dell’orbiting raramente è un preludio al ritorno; più spesso è una strategia inconscia (o conscia) di rallentamento del distacco reciproco. È un modo per assicurarsi che tu non possa mai davvero voltare pagina completamente, che una parte di te resti sempre lì, sospesa, in attesa.
E sai qual è il paradosso? Che mentre tu sei fermo/a a interpretare segnali inconsistenti, loro molto probabilmente continuano a vivere la loro vita. Escono con altre persone, fanno nuove esperienze, riempiono il loro tempo. Sono liberi, in un certo senso, mentre tu rischi di rimanere prigioniero/a di un’illusione che loro stessi alimentano, magari senza piena consapevolezza.
Spezzare l’Orbita: Come Difendersi e Riprendere il Controllo
Allora come si esce da questo ciclo potenzialmente tossico? Come ci si difende dall’influenza di questi ex fantasma? La risposta richiede una scelta attiva e consapevole: tagliare i ponti digitali e mentali. Non lasciare spiragli, non cercare spiegazioni recondite, non dare spazio al dubbio alimentato da gesti ambigui. L’orbiting si nutre della tua attenzione e della tua interpretazione; l’unico modo per neutralizzarlo è privarlo del suo nutrimento.
- Blocca, cancella, ignora. Non è immaturità, è un atto di autoprotezione e di definizione dei propri confini digitali. Se qualcuno non ha il coraggio o la volontà di esserci davvero nella tua vita, non merita di occupare nemmeno lo spazio digitale e mentale periferico.
- Smetti di dare significato a gesti privi di valore intrinseco. Un like non è una dichiarazione d’amore, una visualizzazione di una storia non è un “mi manchi”. Spesso sono solo riflessi automatici, abitudini digitali o espressioni della loro stessa incapacità di tagliare nettamente il cordone.
- Riprendi il controllo della tua narrazione emotiva. Non lasciare che il tuo benessere e il tuo processo di guarigione dipendano dalle azioni inconsistenti di chi si rifiuta di lasciarti libero/a o di fare una scelta chiara. L’unico modo per vincere davvero l’orbiting è lavorare su te stesso/a affinché la loro presenza digitale diventi progressivamente irrilevante.
Conclusioni: Tu Sei il Centro, Non un Pianeta in Orbita
Perché alla fine, la metafora dell’orbiting ha un limite: la tua vita non è un sistema solare dove il tuo ex è il sole e tu sei costretto/a a ruotargli attorno. Sei tu il centro del tuo universo emotivo, e non c’è nulla che ti obblighi a restare intrappolato/a nell’orbita gravitazionale di chi non ha mai avuto il coraggio, la chiarezza o la volontà di restare davvero al tuo fianco o di lasciarti andare completamente.
Smettila di aspettare segnali che non arrivano o che sono troppo ambigui per essere affidabili. Smettila di guardare indietro o di controllare ossessivamente le loro tracce digitali. Non sei nato/a per girare in cerchio intorno a qualcuno che non ha saputo scegliere te o che non sa gestire la fine delle dinamiche relazionali in modo maturo e rispettoso.
Se ti ritrovi bloccato/a in dinamiche simili e senti che il fantasma di un ex ti impedisce di andare avanti, ricorda che non devi affrontare tutto da solo/a. A volte, un supporto psicologico può fare la differenza per ritrovare chiarezza e benessere. Se senti il bisogno di parlarne, contattaci per un supporto.
da Dr. Mario Valente
Ogni anno, il 25 novembre, ci fermiamo per un istante, quasi come un riflesso condizionato, a ricordare le donne che non ci sono più. Quelle che sono state spezzate, ridotte in frantumi da mani che non avrebbero mai dovuto toccarle. Ma cosa significa davvero fermarsi per una giornata? Una riflessione momentanea, un minuto di silenzio, una candela accesa. Non basta. Non basta nemmeno per renderci conto che, ogni giorno, in ogni angolo del mondo, la violenza contro le donne non è solo una tragica realtà, ma una norma silenziosa che ci attraversa, che ci consuma, che ci scava dentro.
Perché la violenza sulle donne non è solo un atto fisico. Non è solo un colpo che lascia lividi sulla pelle, ma è un colpo che risuona nel profondo, dentro le ossa dell’anima, nei recessi dove nessuno può vedere. È un assalto invisibile che si annida nei sorrisi forzati, nei “va tutto bene” che non corrispondono alla verità. È un annientamento psicologico, una forma di tortura silenziosa che non si lascia mai dimenticare.
Oggi parliamo di violenza, ma parliamo anche di quello che si nasconde dietro il volto della violenza: il controllo, l’umiliazione, la manipolazione. La violenza non è solo il pugno che spezza il corpo, è l’umiliazione che spezza lo spirito. È la parola che taglia più della lama, l’insulto che segna più di un segno sulla pelle. È la continua e incessante negazione della dignità, che si ripete giorno dopo giorno fino a ridurre la donna a una macchia, a un’ombra di se stessa.
Pensiamo per un attimo alla solitudine che accompagna questa violenza. Perché spesso non si tratta di una botta, di un’esplosione improvvisa. La violenza è spesso lenta, pervasiva, subdola. È come un veleno che si insinua nell’anima, un lento scivolare in un abisso di paura, incertezza e vergogna. È l’isolamento che si fa strada in ogni angolo, il muro invisibile che impedisce di chiedere aiuto, di sperare in un futuro diverso. La violenza è un silenzio che parla troppo, una complicità che non osiamo riconoscere.
Non possiamo più accettare il fatto che la violenza sulle donne sia vista come qualcosa di inevitabile, come una realtà con cui dobbiamo convivere. Non possiamo continuare a guardare dall’altra parte mentre altre vite vengono distrutte, altre menti, altri cuori vengono schiacciati sotto il peso di una cultura che ancora oggi tende a giustificare, minimizzare, nascondere. Ogni volta che permettiamo a una donna di sentirsi invisibile, ogni volta che ignoriamo un grido di aiuto, ogni volta che scegliamo il silenzio invece della verità, stiamo alimentando la violenza.
Questa giornata mondiale non può essere solo un promemoria. Non può ridursi a un post sui social, a una manifestazione senza seguito. Deve essere il momento in cui tutti ci fermiamo a riflettere, a fare i conti con noi stessi, con quello che accade dietro le porte chiuse, nelle stanze silenziose delle case. Dobbiamo riconoscere la violenza che si nasconde nei piccoli gesti, nelle parole che non dovrebbero essere mai dette, nelle libertà che vengono negate.
Ognuno di noi ha una responsabilità. Noi, come individui, come cittadini, come membri di una società. Non possiamo più voltare lo sguardo. Non possiamo più lasciare che il dolore e la sofferenza diventino parte di una normalità che non vogliamo vedere. È ora di agire, è ora di fare davvero la differenza.
Oggi, più che mai, dobbiamo chiedere: come possiamo impedire che questo accada ancora? Come possiamo spezzare il ciclo di violenza che, nonostante i decenni di lotte, continua a colpire migliaia di donne ogni giorno? La risposta non è semplice, non è immediata. Ma inizia con il riconoscere la violenza, con il non fare finta che non esista. Inizia con il fare rumore, con il non restare in silenzio.
Se davvero vogliamo un cambiamento, dobbiamo smettere di aspettare che qualcun altro lo faccia. La violenza contro le donne non è un problema che riguarda solo le donne. È un problema che riguarda tutti noi. È una ferita che infligge alla nostra umanità. E finché non ce ne faremo carico, finché non riconosceremo in ogni donna il nostro riflesso, ogni 25 novembre non sarà che una commemorazione inutile, un’eco che svanisce nel nulla.
Oggi, e ogni giorno, dobbiamo rompere il silenzio.
da Dr. Mario Valente
In un’epoca in cui la connessione digitale sembra essere diventata quasi un’estensione del nostro essere, la dipendenza dai social media emerge come una preoccupante realtà con implicazioni profonde sul benessere psicologico degli individui, in particolare degli studenti universitari. La ricerca condotta da José Luis Jasso-Medrano e Fuensanta López-Rosales e pubblicata su “Computers in Human Behavior” nel 2018 offre uno sguardo approfondito su come l’utilizzo patologico dei social media possa correlarsi a manifestazioni di depressione e ideazione suicidaria, problemi sempre più diffusi nell’ambiente accademico. Attraverso l’analisi di un campione di 374 studenti universitari, questo studio mette in luce la relazione significativa tra comportamenti di dipendenza dai social media e condizioni psicologiche avverse, sollevando interrogativi critici sulla nostra relazione con la tecnologia e il prezzo che siamo disposti a pagare per la nostra incessante bisogna di connessione.
In un contesto dove la linea tra uso moderato e dipendenza dai social media diventa sempre più sfumata, lo studio propone un modello esplicativo che cerca di spiegare la complessa rete di fattori che legano l’uso dei dispositivi mobili, il tempo trascorso online, e le conseguenze sulla salute mentale. Mentre la depressione e l‘ideazione suicidaria emergono come correlati significativi del comportamento di dipendenza, il lavoro offre anche spunti su possibili percorsi preventivi e strategie di intervento per mitigare questi effetti. L’articolo si propone quindi non solo come una riflessione sulle sfide poste dalla nostra era digitale ma anche come un campanello d’allarme sulla necessità di riconsiderare e riadattare il nostro rapporto con le tecnologie sociali, per preservare e promuovere il benessere psicologico degli studenti universitari nell’era della connessione perpetua.
Connessioni Virtuali, Conflitti Reali: Analisi dell’Impatto dei Social Media sulla Psiche Studentesca
Lo studio esaminato si focalizza sull’esplorazione delle interconnessioni tra l’uso dei social media, la dipendenza da questi, l’impiego dei dispositivi mobili, la depressione e l’ideazione suicidaria all’interno di un campione costituito da 374 studenti universitari. L’obiettivo principale di questa ricerca è analizzare come l’utilizzo dei social media e il comportamento di dipendenza correlato possano influenzare le condizioni psicologiche degli studenti, come la depressione e i pensieri suicidi.
I ricercatori hanno impiegato questionari per raccogliere dati sulle abitudini di utilizzo dei social media e sui dispositivi mobili degli studenti, oltre che per valutare la presenza di sintomi depressivi e l’ideazione suicidaria. La distribuzione del genere nel campione vedeva una prevalenza femminile (58.6%) rispetto a quella maschile (41.4%), con un’età media dei partecipanti di 20.01 anni. La scelta di concentrarsi su una popolazione studentesca universitaria risiede nell’intensa integrazione dei social media e dei dispositivi mobili nelle loro vite quotidiane, sia per scopi accademici che personali.
Uno dei risultati più significativi dello studio è stato il legame tra il comportamento di dipendenza dai social media e le condizioni psicologiche negative come la depressione e l’ideazione suicidaria. È interessante notare che, mentre l’uso generale dei social media non era direttamente collegato a queste condizioni negative, il comportamento di dipendenza — definito da un utilizzo eccessivo e compulsivo dei social media — mostrava una correlazione significativa. Questo suggerisce che non è tanto la quantità di tempo trascorso sui social media a influenzare negativamente il benessere psicologico, quanto piuttosto la natura dell’uso e la possibile dipendenza da queste piattaforme.
Un altro aspetto rilevante dello studio riguarda la proporzione di studenti che hanno riportato idee suicidarie: circa il 36.1% del campione ha ammesso di aver avuto almeno un pensiero relativo al suicidio nelle due settimane precedenti alla somministrazione dei questionari. Questo dato allarmante evidenzia l’importanza di prestare attenzione non solo alle abitudini di utilizzo dei social media e ai dispositivi mobili tra gli studenti universitari ma anche di considerare l’impatto di questi comportamenti sulle loro condizioni psicologiche.
Lo studio mette in luce la necessità di approfondire la comprensione dei legami tra tecnologia, uso dei social media e salute mentale, soprattutto in contesti giovanili e accademici. Identificare i comportamenti di dipendenza e comprendere i loro effetti può essere fondamentale per sviluppare strategie preventive e interventi mirati a promuovere il benessere psicologico e ridurre il rischio di depressione e ideazione suicidaria tra gli studenti universitari.
Allarme Rosso: La Crescita dell’Ideazione Suicidaria legata alla Dipendenza dai Social Media
Nel dettaglio, lo studio si concentra sui seguenti aspetti principali relativi all’uso dei social media e alla dipendenza da essi:
- Correlazione tra dipendenza dai social media e salute mentale: La ricerca evidenzia una significativa correlazione tra comportamenti di dipendenza dai social media e manifestazioni di depressione e ideazione suicidaria tra gli studenti universitari. Questo suggerisce che, oltre all’uso dei social media in sé, è il comportamento di dipendenza—caratterizzato da un uso compulsivo e difficoltà a staccarsi dai social—ad avere un impatto maggiore sulla salute mentale degli studenti.
- Prevalenza di ideazione suicidaria: Il 36.1% del campione ha riportato di aver sperimentato almeno un pensiero suicida nelle ultime due settimane. Questo dato allarmante riflette l’urgenza di indirizzare l’attenzione verso le implicazioni psicologiche dell’uso dei social media, sottolineando la necessità di comprendere meglio i meccanismi attraverso i quali l’uso dei social media può influenzare negativamente il benessere psicologico degli studenti.
- Modello esplicativo della dipendenza dai social media: Lo studio propone un modello esplicativo che lega il comportamento di dipendenza dai social media a vari fattori, inclusi l’uso dei dispositivi mobili, le ore trascorse sui social media, la depressione e l’ideazione suicidaria. Questo modello suggerisce che la frequenza d’uso del cellulare e le ore giornaliere trascorse sui social media possono predire il comportamento di dipendenza, il quale, a sua volta, è correlato a depressione e ideazione suicidaria. Interessantemente, l’ideazione suicidaria si relaziona in modo negativo al modello, indicando che, in presenza di depressione, il comportamento di dipendenza dai social media potrebbe funzionare come un fattore protettivo contro l’ideazione suicidaria.
La distinzione tra l’uso eccessivo dei social media e il comportamento di dipendenza emerge come un punto chiave dello studio. Mentre l’uso eccessivo non è necessariamente legato a conseguenze negative sulla salute mentale, il comportamento di dipendenza mostra una correlazione significativa con la depressione e l’ideazione suicidaria. Ciò implica che non è il tempo trascorso sui social media a costituire un rischio per il benessere psicologico, ma piuttosto la natura compulsiva e dipendente dell’uso.
Questi risultati sollevano importanti questioni sul ruolo dei social media e dell’uso dei dispositivi mobili nella vita degli studenti universitari, suggerendo una connessione diretta tra i comportamenti di dipendenza da questi strumenti digitali e la salute mentale. È fondamentale, quindi, che le istituzioni educative, i professionisti della salute mentale e i policy maker prendano in considerazione questi dati per sviluppare strategie preventive e interventi mirati a promuovere un uso più consapevole e sano dei social media tra gli studenti universitari, al fine di prevenire l’esacerbazione di problemi di salute mentale.
Decodificare la Dipendenza: Verso un’Approfondita Comprensione e Intervento
Il modello esplicativo proposto nello studio di José Luis Jasso-Medrano e Fuensanta López-Rosales esamina le relazioni complesse tra l’uso dei social media, il comportamento di dipendenza, l’uso dei dispositivi mobili, la depressione e l’ideazione suicidaria tra gli studenti universitari. Questo modello cerca di spiegare come queste variabili interagiscono tra loro e influenzano la salute mentale degli studenti. Di seguito è presentata una descrizione dettagliata del modello basata sui punti salienti del documento:
- Uso dei Dispositivi Mobili e Social Media: Il modello inizia considerando la frequenza di utilizzo dei dispositivi mobili e dei social media come variabili indipendenti. Queste variabili riflettono quanto spesso gli studenti accedono ai social media attraverso i loro dispositivi, quantificando l’intensità del loro coinvolgimento nelle piattaforme digitali.
- Comportamento di Dipendenza: Il nucleo centrale del modello è il comportamento di dipendenza, che è influenzato direttamente dalla frequenza di utilizzo dei dispositivi mobili e delle ore trascorse sui social media. Questa variabile riflette un utilizzo compulsivo dei social media che va oltre l’uso normale o moderato, caratterizzato da un forte bisogno di essere costantemente connessi e dalla difficoltà di staccarsi dalle piattaforme sociali.
- Depressione e Ideazione Suicidaria: La depressione e l’ideazione suicidaria sono considerate come variabili dipendenti nel modello, influenzate dal comportamento di dipendenza. Il modello propone che la dipendenza dai social media possa contribuire a sentimenti di depressione e aumentare il rischio di ideazione suicidaria tra gli studenti. Questo legame suggerisce che il comportamento patologico legato all’uso dei social media può avere conseguenze negative sul benessere psicologico.
- Ruolo Moderatore del comportamento di dipendenza: Un aspetto innovativo del modello è l’ipotesi che il comportamento di dipendenza possa avere un ruolo moderatore nella relazione tra depressione e ideazione suicidaria. In presenza di depressione, il comportamento di dipendenza dai social media potrebbe funzionare come un meccanismo di coping disfunzionale, ma contemporaneamente offrire una forma di distrazione dai pensieri suicidari. Questo suggerisce una relazione complessa e bidirezionale tra queste variabili.
In sintesi, il modello esplicativo proposto nello studio mette in evidenza le relazioni tra uso e dipendenza dai social media, depressione e ideazione suicidaria, offrendo spunti significativi per comprendere meglio come l’interazione tra queste variabili possa influenzare la salute mentale degli studenti universitari. Riconoscere e comprendere queste dinamiche è fondamentale per lo sviluppo di interventi e strategie preventive mirate a supportare gli studenti nell’uso salutare dei social media e dei dispositivi mobili.
Bibliografia
- José Luis Jasso-Medrano, Fuensanta López-Rosales, Measuring the relationship between social media use and addictive behavior and depression and suicide ideation among university students, Computers in Human Behavior (2018), doi: 10.1016/j.chb.2018.05.003
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da Dr. Mario Valente
La festività di Halloween è da tempo immemore un momento unico nell’anno, un’occasione in cui le persone di tutte le età si travestono, assumendo identità e caratteristiche di creature spaventose, fantastici eroi, o persino oggetti inanimati. Al di là del divertimento e della gioia che questo evento può portare, vi è un aspetto psicologico profondamente radicato nella tradizione di Halloween che merita una riflessione più attenta. Questo articolo intende esplorare la metafora del mostrare la nostra parte “mostruosa” durante Halloween e condividerla con il mondo, cercando di comprendere le implicazioni psicologiche di questa pratica.
La Maschera Come Veicolo di Espressione:
Le maschere e i costumi indossati durante Halloween fungono da veicoli attraverso i quali le persone possono esplorare e esprimere parti di sé che durante il resto dell’anno rimangono celate. Questo può includere aspetti della personalità considerati socialmente inaccettabili, paure recondite, o semplicemente desideri di evasione dalla realtà quotidiana. Indossando una maschera, gli individui hanno l’opportunità di esprimere queste parti “mostruose” di sé in un contesto accettato e persino celebrato dalla società.
La Funzione Catartica di Halloween:
L’atto di vestirsi in modo spaventoso o bizzarro e di condividere questa immagine con gli altri può avere una funzione catartica. La catarsi, un concetto originariamente derivato dalla tragedia greca, si riferisce al processo di purificazione o purgazione delle emozioni. In questo contesto, Halloween offre un’opportunità per liberare emozioni represse, paure e parti dell’io che normalmente vengono nascoste. Questa espressione può portare a un senso di sollievo e di liberazione, contribuendo a un maggiore benessere psicologico.
L’Importanza dell’Accettazione e della Condivisione:
Condividere la nostra parte “mostruosa” con gli altri durante Halloween può anche giocare un ruolo cruciale nell’accettazione di sé. Riconoscere e abbracciare queste parti di noi può portare a una maggiore autenticità e integrità psicologica. Inoltre, la condivisione di queste immagini con gli altri può contribuire a creare un senso di comunità e appartenenza, poiché le persone si rendono conto che non sono sole nel nascondere parti di sé che temono possano essere giudicate.
Halloween, con la sua ricca tradizione di maschere e costumi, offre una finestra unica nelle profondità della psiche umana. L’atto di mostrare e condividere la nostra parte “mostruosa” può servire come un potente strumento di espressione, catarsi e accettazione di sé. Comprendere il significato psicologico di questa pratica può arricchire la nostra esperienza di Halloween, trasformando una semplice festività in un’opportunità di crescita personale e connessione umana.
da Dr. Mario Valente
La serie “Servant” di M. Night Shyamalan si distingue nel panorama televisivo per la sua capacità di intrecciare il thriller psicologico con una profonda esplorazione del dolore e della rimozione. Attraverso la lente della psicologia, possiamo esaminare come la serie affronti il tema della rimozione di ricordi traumatici, offrendo spunti di riflessione non solo per gli appassionati di serie TV ma anche per professionisti nel campo della salute mentale.
La Rimozione come Meccanismo di Difesa
Nel cuore di “Servant” giace la storia di una famiglia che cerca di superare la perdita inimmaginabile di un bambino. La serie illustra vividamente la rimozione come meccanismo di difesa, dove i personaggi principali sopprimono i ricordi traumatici per evitare il dolore insopportabile. Questo processo inconscio è magistralmente rappresentato attraverso simbolismi visivi e narrazioni che sfidano la percezione dello spettatore.
“Servant” non si limita a mostrare la rimozione, ma si addentra nelle complesse reazioni psicologiche al trauma. La serie diventa un palcoscenico dove si manifestano sintomi di PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress), come flashback, negazione e distacco emotivo, offrendo un ritratto autentico delle sfide che i sopravvissuti al trauma affrontano quotidianamente.
La dinamica familiare in “Servant” è un altro aspetto cruciale. La rimozione di un trauma non è un’esperienza isolata; influisce su tutti i membri della famiglia, alterando le relazioni e la comunicazione. La serie mette in luce come il dolore condiviso possa sia unire che dividere, spingendo i personaggi verso scelte estreme.
La Psicologia dei Protagonisti
Dorothy
Dorothy Turner, interpretata da Lauren Ambrose in “Servant”, è una figura centrale che rappresenta il cuore emotivo e psicologico della serie. Come reporter di notizie televisive, Dorothy proietta un’immagine di controllo e competenza, ma la sua vita personale è segnata da un profondo trauma: la perdita del suo bambino, Jericho.
Dorothy è una donna che vive in uno stato di rimozione profonda, incapace di affrontare la realtà della morte di suo figlio. La sua psiche crea una realtà alternativa in cui il bambino è ancora vivo, un meccanismo di difesa che le permette di mantenere una facciata di normalità. La sua delusione è così completa che si prende cura di una bambola realistica, credendo che sia il suo vero figlio.
La sua rimozione del trauma costringe gli altri membri della famiglia, in particolare suo marito Sean, a entrare nella sua illusione per preservare il suo benessere psicologico. Questo crea una tensione sottile, poiché la famiglia naviga tra la complicità nella finzione di Dorothy e il desiderio di affrontare la realtà.
La presenza di Dorothy e il suo rifiuto di affrontare il lutto hanno un impatto significativo sugli altri personaggi, spingendoli a esaminare le loro verità e le loro illusioni. La sua incapacità di elaborare il lutto diventa il fulcro attorno al quale ruotano i segreti e le tensioni della famiglia, e la sua delusione si manifesta in modi che hanno ripercussioni sia psicologiche che soprannaturali all’interno della narrazione della serie.
Sean
Sean Turner, interpretato da Toby Kebbell in “Servant”, è un personaggio complesso il cui ruolo psicologico nel sistema familiare è cruciale. Come marito di Dorothy, Sean si trova a navigare il mare agitato del lutto e della rimozione che la moglie sperimenta dopo la perdita del loro figlio. La sua funzione psicologica nella famiglia è molteplice:
● 1. Supporto e Protezione: Sean rappresenta il pilastro di forza, cercando di mantenere un senso di normalità e proteggere la psiche fragile di Dorothy. La sua partecipazione alla finzione del bambino di plastica è un tentativo di preservare la sanità mentale di sua moglie, riflettendo un profondo senso di dedizione e sacrificio.
● 2. Coping di Negazione: Allo stesso tempo, Sean esprime il suo dolore in modo più sottile e controllato. La sua passione per la cucina e il perfezionismo nel lavoro possono essere visti come meccanismi di coping per distogliere l’attenzione dal dolore insopportabile. La sua apparente calma esteriore nasconde una lotta interna, suggerendo che anche lui potrebbe essere in uno stato di negazione o rimozione.
● 3. Conflitto e Tensione: Sean introduce anche tensione nel sistema familiare. La sua difficoltà nel confrontarsi con la realtà del loro lutto crea un conflitto interno che si manifesta in vari modi, dalla sua interazione con la misteriosa babysitter Leanne alla sua incapacità di comunicare apertamente con Dorothy riguardo al loro trauma.
● 4. Riflessione e Realizzazione: Attraverso Sean, la serie esplora il tema della realizzazione e dell’accettazione. Mentre la serie progredisce, Sean inizia a riflettere più profondamente sulla loro situazione, suggerendo che la sua funzione psicologica evolve da un iniziale supporto incondizionato verso un confronto più aperto con la realtà del loro dolore.
Sean funge da catalizzatore per il cambiamento e la crescita all’interno della dinamica familiare, rappresentando le complesse reazioni emotive che i genitori possono sperimentare in seguito alla perdita di un figlio. La sua presenza è essenziale per il mantenimento dell’equilibrio precario della famiglia Turner, e la sua evoluzione personale è un aspetto chiave della narrazione psicologica di “Servant”.
Leanne
Leanne, interpretata da Nell Tiger Free, è un personaggio enigmatico e complesso nella serie “Servant”. Come babysitter che entra a far parte della famiglia Turner, la sua presenza e il suo comportamento hanno un impatto significativo sulla dinamica familiare e sul modo in cui la famiglia affronta il proprio trauma.
Leanne è una figura quasi gotica, che ricorda il personaggio di Mercoledì della famiglia Addams, con un’aria di mistero che la circonda. La sua età giovanile e il suo aspetto innocente sono in netto contrasto con la sua maturità emotiva e la sua calma inquietante. Leanne si adatta rapidamente alla situazione insolita della famiglia Turner, accettando senza esitazione il loro modo di gestire il lutto. La sua accettazione del bambino di plastica come se fosse reale permette a Dorothy di mantenere la sua rimozione e negazione del trauma. Per Sean, la presenza di Leanne è sia una fonte di supporto che di tensione, poiché la sua accettazione del delirio di Dorothy permette a Sean di evitare confronti diretti con il dolore di sua moglie.
Leanne rappresenta anche un elemento di sfida all’interno del sistema familiare: la sua presenza innesca cambiamenti nei comportamenti e nelle dinamiche familiari, costringendo ogni membro a confrontarsi con la propria realtà interna. Inoltre, la sua figura può essere vista come una proiezione delle paure e dei desideri inconsci della famiglia, agendo come uno specchio delle loro psiche.
Leanne è un personaggio che incarna il mistero e il non detto, un elemento perturbatore che porta alla luce le dinamiche psicologiche sottostanti della famiglia Turner, costringendoli a confrontarsi con il loro dolore e con le loro verità nascoste.
Julien
Julien è caratterizzato da un cinismo apparente e un atteggiamento protettivo, specialmente nei confronti di sua sorella Dorothy. Nonostante la sua facciata di sicurezza e controllo, Julian è profondamente influenzato dalla tragedia che ha colpito la famiglia e, in particolare, dalla reazione di Dorothy alla perdita del figlio. Egli oscilla tra il desiderio di sostenere la sorella nella sua illusione e la necessità di affrontare la realtà della situazione.
Julian funge da elemento di equilibrio e di sfida all’interno della famiglia. Il suo scetticismo e la sua ricerca della verità agiscono come un contrappeso alla negazione di Dorothy e alla complicità di Sean nel mantenere la finzione del bambino vivo. Julian può essere visto come la voce della ragione, spesso mettendo in discussione le dinamiche disfunzionali e cercando di portare alla luce la verità.
Inoltre, Julian rappresenta una figura di sostegno che, nonostante le sue imperfezioni e i suoi conflitti interni, cerca di mantenere la famiglia unita. La sua presenza è essenziale per la dinamica della serie, poiché incarna la lotta tra la realtà e l’illusione, un tema centrale in “Servant”. Julian è anche un catalizzatore per l’azione, spingendo gli altri personaggi verso la risoluzione del mistero e la rivelazione dei segreti.
Jericho
La sua assenza fisica è sostituita da un realistico bambolotto, che Dorothy, la madre, tratta come se fosse vivo, una manifestazione della sua incapacità di affrontare la realtà della perdita del figlio.
Psicologicamente, Jericho rappresenta il legame ininterrotto tra i membri della famiglia e il loro trauma non elaborato. La sua “presenza” attraverso il bambolotto è un meccanismo di difesa per Dorothy, che le permette di mantenere una facciata di normalità e di evitare il dolore insopportabile della perdita. Per Sean, il padre, il bambolotto diventa un oggetto di connessione con Dorothy, nonostante la sua consapevolezza della realtà, riflettendo il suo conflitto interiore e il desiderio di proteggere sua moglie dal dolore.
Jericho, quindi, è sia un simbolo di perdita che un collante che tiene insieme la fragile realtà della famiglia Turner. La sua “vita” attraverso il bambolotto è una rappresentazione della negazione e della rimozione, temi centrali nella serie che esplorano come le persone gestiscono il lutto e il trauma.
La setta
Nella serie “Servant”, la setta gioca un ruolo significativo, sia nella trama che nella dinamica psicologica dei personaggi. Senza rivelare troppo per evitare spoiler, la setta è introdotta come un elemento misterioso e inquietante che si intreccia con la vita dei protagonisti.
Il suo significato può essere interpretato come una metafora dell’influenza manipolatrice e talvolta distruttiva che certe credenze o ideologie possono avere sulla vita delle persone.
Un elemento di controllo e di potere sulle vulnerabilità dei personaggi. La lotta interna tra razionalità e irrazionalità, tra il desiderio di trovare risposte e la tentazione di arrendersi a spiegazioni che promettono conforto o soluzioni ai loro tormenti. La presenza della setta agisce come catalizzatore di tensione e incertezza, spingendo i personaggi a confrontarsi con le loro paure più profonde e con la possibilità che ci sia qualcosa di più grande e incomprensibile che sta influenzando le loro vite.
La setta può essere vista come un elemento che esplora il tema della fede e della credulità, interrogando fino a che punto si può spingere la fede in qualcosa di non tangibile, specialmente quando si è vulnerabili a causa di un trauma. La setta, quindi, diventa un mezzo attraverso il quale la serie esamina come le persone possono essere influenzate e guidate da forze che promettono salvezza o redenzione in momenti di disperazione.
Conclusioni e Riflessioni
“Servant” è più di una serie TV; è una finestra sulle profondità della psiche umana. Offre un terreno fertile per discussioni e analisi psicologica, specialmente per chi si occupa di psicoterapia e di trattamento del trauma. La rimozione, come mostrato nella serie, può essere temporaneamente salvifica, ma la verità, come sempre, tende a emergere, spesso con conseguenze imprevedibili.
Bibliografia di Riferimento:
Per chi desidera esplorare ulteriormente il tema della rimozione e del trauma, si consigliano le seguenti letture:
1. Freud, S. (1914). “Ricordare, ripetere e rielaborare (ulteriori raccomandazioni sulle tecniche della psicoanalisi II)”.
2. van der Kolk, B. A. (2014). “The Body Keeps the Score: Brain, Mind, and Body in the Healing of Trauma”.
3. Herman, J. L. (1992). “Trauma and Recovery”.
4. Roth, S., et al. (1997). “Complex PTSD in victims exposed to sexual and physical abuse: Results from the DSM-IV Field Trial for Posttraumatic Stress Disorder”. Journal of Traumatic Stress.
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